Vite mie, è l’ultimo romanzo di Yari Selvetella, in libreria dall’11 ottobre edito da Mondadori.
Dello stesso autore, finalista al Premio Strega nel 2018, avevo letto Le Stanze dell’addio, un libro che mi aveva colpito profondamente e nel quale mi ero immedesimata appieno, perchè parla di un lutto dalla prospettiva del sopravvissuto.
Vite mie, forse per casualità o meglio come dice l’autore per coincidenza, capita in un altro periodo altrettanto particolare ma dall’altra parte dello spettro: a 20 giorni dalla nascita del mio secondo bimbo. Giorni pieni di riconoscenza e felicità, ormoni impazziti in ogni dove.
Amare non è sufficiente, bisogna sapere come si fa.
Il romanzo: Vite mie. Un lessico famigliare contemporaneo
Claudio Prizio, ha dimenticato come si ama. Ricerca l’amore nella sua famiglia, nei gesti ripetuti mille volte, nella stanze della casa, nei rituali sempre uguali a se stessi che replica con indefessa fiducia ogni giorno, nella speranza di rivestire la parola amore con un significato che non gli appartiene più.
Il passato libera il presente.
Tutti abbiamo bisogno di andare oltre. Di lasciare andare il passato per poter affrontare il presente e il futuro. Claudio ci prova, aggrappandosi alla sua famiglia, così particolare eppure così normale, ma anche aggirandosi per la sua città: Roma non smarrisce mai nulla, tutto sminuzza e tutto tritura, impastandolo a sé.
E per superare il passato decide di impacchettare i ricordi e di seminarli per la città a imperitura memoria. Un viaggio prima di tutto alla ricerca di se stesso. Da tempo infatti si rivede nelle persone che incontra: l’agente immobiliare, la donna che vive in campana, l’autista distratto che sta per investirlo. Ma invece di rimettere insieme i pezzi di puzzle di se stesso, gli altri io lo confondo fino a condurlo in una strada senza uscita.
E questo sarebbe amore? Questo inghippo tra terrore e sopportazione, questo timore organizzato, questa sensazione di non essere compreso da nessuno e men che mai da me stesso, questa impressione di non riuscire a dare il giusto.
Si può ancora amare? Anche quando il dolore e il ricordo sono più vividi della vita? Anche quando tutto cambia rotta inesorabilmente? Si può ricordare senza vivere schiacciati dal passato?
Il linguaggio
Vite mie, così come Le Stanze dell’addio, sono per certi versi un pugno allo stomaco. Un linguaggio diretto, senza fronzoli, immediato.
Non è facile raccontare il dolore, ci vogliono le parole giuste, la capacità di esprimere le sensazioni senza retorica. E’ così.
E’ uno di quei libri a cui pensi per giorni, che arrivano con calma e scavano lasciando il segno.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!